DESERTO

 

 

di Jinna

(Jinna@sabermail.com)

 

 

Un altura riarsa dai fendenti dei due soli. Rocce dal cromatismo sanguinante. E sabbia. Sulla pelle. Sotto la pelle. Fin dentro le ossa.

Spesse strisce di garza schermano dalle offese delle intemperie un viso dimentico di sé. Due lenti monoculari, sporgenti come gli occhi di un camaleonte, proteggono dagli artigli della luce lo sguardo intento di una vedetta. Un predone Tusken. L’incarnazione dello spirito del deserto.

La piatta distesa al di fuori dell’abitato di Mos Espa si lascia sondare, indifferente all’ansia febbrile del Sabbipode. Qua e là le superfici increspate dei miraggi conferiscono una consistenza liquida all’atmosfera.

Un animale riposa la sua enorme mole accanto al predone. Sbuffa. La testa dalle grandi corna affusolate ciondola nervosamente.

La sento anch’io amico mio. L’aria è troppo ferma…

Il Tusken sfiora rassicurante la folta pelliccia del bantha. Solleva leggermente il viso. Sotto l’inquietante maschera gli occhi si chiudono e lasciano il passo alle percezioni degli altri sensi.

Perché non parli vento del deserto? Perché non riesco a sentirti?

Un guizzo argentato interrompe il flusso dei pensieri. È un’astronave. La sua linea sinuosa plana leggera sulla superficie del pianeta. Spuma di sabbia l’accoglie. E l’avvolge.

Il corpo del Sabbipode si tende, la mano sinistra soffoca il bastone gaffi in una morsa d’acciaio. Con un suono gutturale richiama il compagno fedele, salta in groppa: uomo e animale, due estensioni dello stesso corpo. Lentamente il grottesco centauro trova riparo dietro alcune guglie di roccia. Profonde fessure si aprono lungo la superficie verticale delle bizzarre formazioni. Un luogo ideale per appostarsi.

Il Sabbipode ha il respiro irregolare, la tensione traspira attraverso la cute. Ma non è la tempesta d’adrenalina del predatore che fiuta il sangue. Non questa volta. Vecchi fantasmi emergono dalle nebbie della mente, come ombre dalle parole di un cantastorie in una notte di racconti intorno al fuoco. Immagini, strenuamente rimosse. Sensazioni sopite.

Il predone porta le mani alle orecchie. Scuote ferocemente il capo.

Taci! Ti prego…

Ma il vento del deserto è tornato ad ululare.

 

“…Stai all’erta, Obi-Wan. Ho avvertito un tremito nella Forza”.

La voce di Qui-Gon Jinn è quasi un sussurro.

Lo sguardo del giovane Padawan incrocia quello del suo mentore. Un’intensità dal riflesso oltremare.

“L’ho avvertito anch’io, Maestro. Farò attenzione”.

Il loro scambio continua oltre le parole. Un silenzio denso di segnali. Un istante, dilatato dalle sottili vibrazioni che transitano sui binari del loro legame Jedi.

Qui-Gon chiama a raccolta l’astrodroide ed il riluttante Gungan che l’accompagneranno nella breve incursione allo spazioporto. Servono parti di ricambio, il generatore dell’iperguida è a pezzi.

Il gruppetto scivola lungo la rampa d’atterraggio. La calda accoglienza dell’aria infuoca il respiro. Si vaporizza la carezza del sudore. Due passi e la sabbia è già padrona dei sensi: graffia, acceca, impasta la bocca.

Il Maestro osserva lo scenario ipnotico della landa desertica. Lo sguardo si sposta lungo l’arco desolato del campo visivo. Sottili vibrazioni sfiorano la sua coscienza, come miraggi ingannano l’occhio della sua mente. Lo chiamano con voce suadente, per poi ritrarsi.

Concentrati sul momento. Percepisci. Non pensare. Usa il tuo istinto… Se solo questo tremito…

Le impressioni fisiche si confondono con le percezioni extra-sensoriali. Il maturo Jedi inclina impercettibilmente la testa, lo sguardo perso nel vuoto del paesaggio. Per un istante la voce della Forza ed il gemito del vento cantano all’unisono.

 

Attraverso le ferite della roccia la scena si condensa. Assume contorni netti, definiti. Il Sabbipode ritrova il suo fuoco, imbavaglia le emozioni. Silenzioso, come silenzioso è il suo pensiero, osserva i movimenti degli stranieri.

Un’insolita comitiva si allontana dall’astronave. La guida un umanoide alto, imponente, il segno inconfondibile del carisma nel portamento. Le pesanti falde del suo poncio dissimulano, ma non celano all’occhio esperto del predone, il corpo teso di un guerriero. Si muove leggero, a suo agio nell’ambiente ostile. Dietro di lui la sagoma cilindrica di un droide astromeccanico… un gran bel pezzo per il ‘mercatino’ Jawa dell’usato…  ed un alieno dall’andatura dinoccolata. Una qualche sorta d’anfibio, si direbbe.

I soli ti asciugheranno la pelle, amico mio. E poi l’anima.

Improvvisamente altre due figure si affacciano sulla desolazione assolata. Un uomo, un militare a giudicare dagli indumenti. Ed una ragazza minuta, la lunga ed elaborata acconciatura, l’espressione decisa. Il Tusken la studia a lungo. Per un attimo la sua memoria ripiega su se stessa: un altro tempo, un’altra giovane donna. La stessa determinazione, la stessa abilità nel seppellire inquietudini e paure profonde…

I due gruppi parlottano, poi l’uomo in divisa fa ritorno all’astronave, lasciando la ragazza col guerriero dai tratti leonini.

Lo sguardo del Sabbipode accompagna la marcia della piccola comitiva sin quando il tremolio della terra assetata non l’assimila all’illusione dei suoi miraggi.

Non mi sbagliavo, non potevo sbagliarmi… No. Il soffio del deserto non inganna mai i suoi figli.

 

§

 

Per più di trenta ore il fedele bantha vaga fra dune e aspre falesie. Elude la tormenta di sabbia che turba il sonnolento pomeriggio della mesa. Riscalda il freddo abbraccio della notte. Para lo schiaffo rovente del nuovo giorno. La stanchezza non gli piega il passo. Non chiede acqua. Né cibo. Ma il suo paziente ritmo non riesce a placare il travaglio del silenzioso compagno. Forze antagoniste si affrontano nell’animo del Tusken. Tanto da farlo a brandelli.

Cosa fare? Cosa… sentire?

Vacilla il suo equilibrio. Quel delicato equilibrio conquistato nell’ascolto degli straordinari silenzi del deserto. Nella libertà degli ampi spazi. Nella consapevolezza del proprio ruolo in una società di uguali. Nella dolce contemplazione del tetto di stelle che dà ricovero a sogni e sognatori.

Cosa fare? Cosa sentire?

Per un istante il nome di Sharad Hett inonda di speranza l’arido tormento del giovane predone. Hett, il leader dagli occhi rossi. Il Tusken armato di spada laser.

Lui può aiutarmi! La sua saggezza, il suo consiglio.

Una speranza di breve durata. Sorgente che si prosciuga velocemente. La solitudine delle emozioni prende nuovamente il sopravvento nell’animo del predone. E con essa l’orgoglio. Sgretolano quanto costruito attraverso gli anni, come la tempesta cancella le orme sulla sabbia. Solitudine e orgoglio. Una vecchia maledizione. La stessa da sempre.

 

I due soli scivolano sotto l’orizzonte lasciando nel cielo un’accesa scia di ruggine. Lentamente svaniscono le gradazioni più infuocate. Si stemperano nei toni bruni del crepuscolo e nella pallida coda del tramonto. Tempo di ritornare all’oasi segreta, di riprendere fiato nella quiete delle cose familiari. Il fuoco, la tenda, il profumo del tè. Il suono gutturale dei resoconti della giornata. E dei racconti.

Casa.

Il bantha s’incammina con la sua grave andatura. Pochi metri. L’animale avverte l’improvviso irrigidimento delle gambe del compagno, la stretta delle ginocchia sui fianchi. La testa del Tusken si volta in più direzioni.

C’è qualcosa... Qualcosa.

Un brontolio sommesso sollecita il grosso erbivoro a riprendere il passo. Le redini lo sospingono verso un ampio altopiano che si apre a ventaglio fra le scure creste rocciose. La visione di un’astronave affiora dai fumi di scarico di un recente atterraggio. Non ha niente in comune con i veicoli commerciali che ogni giorno intasano il traffico aereo dello spazioporto di Mos Espa. La lunga prua affilata sembra progettata per trafiggere, insinuarsi, infiltrarsi. Bella e inquietante. Come inquietante è l’apparizione del suo unico occupante… Un umanoide ammantato di nero si affaccia al boccaporto. Un largo cappuccio nasconde i lineamenti del viso. Ma la luce dello sguardo penetra attraverso il muro d’ombra. Una luce ferina. Fissa in un’eterna espressione delirante. Il rumore metallico degli stivali sulla rampa risuona nelle orecchie del Tusken. Si confonde con le sue pulsazioni. L’aria fresca della sera tremola al passaggio dello sconosciuto. Forse è il vento… Quello stesso vento che piega in due il Sabbipode sulla sua cavalcatura. Gli entra dentro. Gli ghiaccia il sangue. Gelido battito d’ali di un rapace notturno.

I movimenti dello straniero si dilatano come in una scena al rallentatore... due mani guantate portano agli occhi un elettrobinocolo. Lo guidano nella ricognizione del paesaggio circostante: rocce ricamate dall’erosione, lande sabbiose, piccoli insediamenti. Un telecomando da polso attiva tre droidi sonda. Flottano fuori della nave e si dirigono ronzanti verso la pianura. Lo sguardo fiammeggiante dello sconosciuto li segue fin quando la loro lamina nera si stempera nel nero della notte. Poi, con la stessa consistenza spettrale con cui è apparso, svanisce inghiottito dalla bocca sbadigliante della sua astronave.

Rannicchiato sul dorso del suo bantha, il Tusken viene colto da un tremito incontrollabile. Per la prima volta dopo anni, le sue spalle si abbandonano alle scosse del pianto.

 

§

 

Passa un’ora. E poi un’altra. Il sopraggiungere dell’oscurità arresta il respiro dell’aria. Ma rilascia quello del Sabbipode e del suo animale. Hanno atteso che il buio coprisse la loro ritirata. E calasse le sue reti di sonno sull’occupante dell’astronave. Cautamente si allontanano. Silenziosi come solo i passi sulla sabbia sanno essere. Percorrono quasi otto miglia in direzione del ‘pozzo della ricompensa’. Il grande erbivoro è spossato da due giorni di marcia in condizioni estreme. Rantola, il muso contratto e disidratato. Il Tusken cerca di farlo bere da un’otre di pelle di dewback. Poi, con un panno bagnato, tampona le screpolature della pelle sulla parte anteriore della testa… Cos’è un uomo del deserto senza il suo compagno? Come può essere tanto avventato da mettere a repentaglio la sua vita?

A lungo rimane in piedi accanto alla grande bestia, le braccia appoggiate sulla sella, il capo chino, sconfitto. La sua mente gira freneticamente a vuoto, incapace di risolvere il conflitto interiore.

Non posso restare qui. Mi aspettano all’accampamento. Mi aspetta la MIA vita, la mia tenda sotto le stelle…

Solleva la testa lentamente e volge lo sguardo a quei soli lontani. Già, le stelle...

Devo andare, amico mio. Io… devo.

Rovista all’interno di due grossi sacchi appesi ai lati della sella.  Estrae un vecchio mantello di tessuto grezzo, se lo butta addosso nascondendo all’interno delle ampie falde il bastone gaffi. Abbassa il cappuccio fin sopra i filtri ottici. Sa come confondersi con l’ambiente circostante. Dissimulare la sua presenza. Un’attitudine che nasce dalla necessità: anni di caccia, di appostamenti, di ‘incontri’ con coloni dal grilletto facile. E forse da qualcos’altro...

Rassicura il bantha carezzandolo affettuosamente sotto il mento. Emette una serie di suoni bassi, disarticolati ma con la qualità ipnotica di una nenia.  Poi con un colpo secco sul posteriore lo scaccia via.

Va, torna all’oasi. Il tuo arrivo avvertirà gli altri. Tu SAI dove condurli… Vi aspetterò lì.

Guarda il mansueto erbivoro allontanarsi, il grande muso schiacciato voltarsi a più riprese…

Con l’animo spezzato di chi tradisce, gira le spalle al fedele compagno e si mette in marcia seguendo tracce che solo i suoi sensi sembrano cogliere.

 

Mos Espa riposa nel fresco torpore della tregua notturna. Le strade si svuotano dei passanti e si riempiono dei loro sogni. Solo le cantine indugiano nella veglia. Bar e bettole con i loro riti di luci e di suoni. I loro officianti: mascalzoni, scommettitori, contrabbandieri. Le loro liturgie: risa, imprecazioni, colpi di blaster. Odore acre di alcol e di spezie.

L’ombra del Sabbipode scivola lungo i muri degli edifici, incurante di quelle sporadiche scintille di vita. Il silenzio accompagna il suo cammino. E le sue soste. Resta immobile nell’oscurità di qualche vicolo. L’orecchio teso del predatore. Due o tre umanoidi ubriachi incrociano i suoi passi, lo ignorano, probabilmente incapaci di riconoscere la loro stessa immagine davanti ad uno specchio.

La strada sembra soccombere alla polvere in vista del quartiere degli schiavi. Un intricato alveare attraversato da un labirinto di scalette in terra battuta. Qualche luce ancora buca la cortina della notte acuendo l’atmosfera rarefatta dell’intero complesso. Un senso di trepidazione martella senza sosta nell’angolo più remoto della mente del Tusken. Fino a quando diventa uno schianto di fronte ad una casupola dall’aspetto modesto ma decoroso.

No…

La casa del ‘piccolo incantatore’.

La gente del deserto ha imparato a riconoscerlo spiando i suoi commerci con i Jawas ai margini della desolazione dello Jundland. Seguendolo durante le sue incursioni nel cuore deserto. Osservandolo gareggiare su quegli strani gusci che lasciano nella loro scia tempeste di fuoco e di sabbia. Veloce e agile come lo scatto di un serpente sulla preda.

Tanto da indurre qualcuno dei nostri ad esercitarsi nel tiro a segno…

Esausto, il predone appoggia le spalle alla porta d’ingresso. Lascia che l’aria trattenuta troppo a lungo fuoriesca dai polmoni. E con essa il ricordo del suo recente incontro con il bambino prodigio…

…Una frana. Il dolore ed il rumore lacerante di un osso che si spezza. Detriti che sommergono il corpo e la coscienza. Buio.

Poi il risveglio accanto al fuoco. Un giovane umano con capelli e occhi che riflettono i colori della sabbia e del cielo del deserto. Il ‘piccolo incantatore’. Ha liberato il Sabbipode dalla morsa delle rocce e offerto soccorso. Non c’è timore nel suo sguardo limpido. Né pregiudizio. Curiosità, più che altro. E… rispetto. Sotto le spesse garze la bocca del Tusken s’increspa in un sorriso. Un gesto quasi dimenticato…

Non posso! Non devo…

Quel momento di debolezza si cristallizza e si sgretola nell’abbraccio gelido della paura. Il bambino avverte l’inquietudine del predone ferito. Lo si legge nel suo sguardo: concentrato, penetrante. Ma probabilmente fraintende le ragioni del suo improvviso turbamento. Probabilmente… E fortunatamente.

 

Qui-Gon riposa disteso sul pavimento del tinello nell’umile dimora degli Skywalker. Il solo mantello a mitigarne la durezza. Il sonno vigile dello Jedi scavalca senza difficoltà il limitare della veglia.

Di nuovo quel tremito

È diventato un’onda di marea. Assale le sue percezioni, le immerge in un abisso di malinconia.

O è nostalgia?

Poi, niente. Silenzio. Assoluta bonaccia nell’oceano della Forza...

Lascia a terra la sua cappa ed è già sulla soglia, investito dal profumo umido della notte. I sensi all’erta, l’espressione impassibile tradita da uno spasmo della muscolatura sulla mandibola. Un movimento attrae la sua attenzione. Una forma indistinta scivola in uno stretto vicolo dalla parte opposta della strada. Le possenti gambe dello Jedi si lanciano all’inseguimento. Più veloci di ogni decisione ponderata. Si perdono nel dedalo di vicoli. Si spossano contrastando l’inerzia di un corpo tanto imponente.

Per un momento l’ombra sembra indugiare. Il riflesso di un’insegna le conferisce una solida tridimensionalità, trasfigurando la sua opaca inconsistenza nelle falde di un pesante mantello. Pochi passi la separano ormai dall’inseguitore.

Adesso scopriremo chi sei…. E cosa vuoi.

Ma la misteriosa creatura è solo in attesa. Una calcolata, consapevole attesa. Non appena il passo del Maestro rallenta in vista del traguardo la fuga riprende.

Non sta scappando. No… Sa bene dove andare. E gioca al gatto col topo.

La mano di Qui-Gon si stringe intorno all’elsa della spada laser, i primi rivoli di sudore tracciano la linea del suo profilo. Tenta di sondare le intenzioni del fuggiasco ma la sua proiezione rimbalza contro un muro di gomma.

Ho un gran brutto presentimento…

Le abitazioni cominciano a diradarsi, le strade polverose cedono il passo alle prime piste carovaniere. La coscienza periferica dello Jedi registra l’attraversamento del confine fra insediamento e deserto. Ma il suo fuoco è altrove. Davanti a sé. Al vertice della linea prospettica del suo sguardo…

La creatura si è fermata bruscamente. Le spalle ricurve, come cercando di riprendere fiato. Qui-Gon arresta il suo passo a distanza di pochi metri, la schiena piegata dal respiro affannoso, le mani appoggiate sulle ginocchia. Solleva leggermente il capo nel tentativo di indovinare sotto la flebile luce delle stelle le mosse del suo opponente. Lo vede voltarsi di scatto, il pallido riverbero di una staffa metallica filtra attraverso il sipario notturno.

Un bastone gaffi!  

Con un riflesso automatico Qui-Gon attiva la sua arma Jedi. Porta la spada in alto, alla destra del viso, in posizione di guardia. La presa a due mani fonde le braccia alla loro letale estensione. Attraverso il chiarore spettrale della lama emergono le fattezze inquietanti del Tusken. Il Sabbipode non sembra reagire. Si limita a contrarre le dita della mano sinistra intorno all’impugnatura del suo gaderffii. Un gesto apparentemente casuale che lascia intuire propositi ben più minacciosi. Il Maestro Jedi si sente trafitto da uno sguardo che non può vedere. Ma che non sfugge alla sua percezione.

“Chi sei?”

Il silenzio del predone sembra sospendere il fluire del tempo.

Gli occhi di Qui-Gon si stringono a fessura lasciando appena intravedere la liquida intensità del loro contenuto. Si concentrano sulla figura in piedi davanti a loro: il mantello, il cappuccio, la stretta mancina dell’arma, il tremito nella Forza… Improvvisamente, un’espressione di sgomento dilaga all’interno del cerchio dell’iride. Di sgomento e realizzazione.

“Amira”

Il capo del Tusken si piega in un impercettibile cenno d’assenso.

“Non pensavo che ci avresti messo così tanto a riconoscermi, Maestro della Forza vivente”

Il respiratore intorbidisce il ricordo lontano di una voce limpida e avvolgente. Per un attimo la lama dello Jedi sembra vacillare poi svanisce con un sibilo sommesso.

“È… è passato tanto tempo…”

Un sospiro incerto.

“Non sapevo nemmeno se tu fossi ancora…”

Chiude gli occhi, solleva leggermente il mento, come rapito dalla mite brezza notturna. Il vento parla. Ora riesce a sentirlo. Un leggero mormorio. L’eco distante di un legame smarrito nel labirinto del tempo.

La sua presenza nella Forza risuona come la voce attraverso il respiratore. Filtrata, attutita, distorta. Ecco perché non ho saputo riconoscerla subito…

“Non ricordavo che fossero grigi”

L’affermazione della donna irrompe nei suoi pensieri. La fissa con uno sguardo interrogativo.

“Non capisco”

“I tuoi occhi. Avrei giurato che fossero di un blu… trasparente”

“Ricordi? Le verità che noi affermiamo dipendono spesso dal nostro punto di vista. È probabile che il tuo punto di vista attuale abbia a che fare con l’oscurità della notte e la luce della mia spada laser…”

Un espressione divertita gli attraversa per un istante il volto.

“Una volta Maestro, per sempre Maestro. Vedo che ancora riesci a trarre una lezione di saggezza Jedi da ogni insignificante occorrenza”

A Qui-Gon non sfugge la nota di sarcasmo.

“Vorrei che fosse così… Tu, dal canto tuo, non hai perso l’abitudine di spiazzare le persone”

I due continuano a fronteggiarsi a lungo, incapaci di dar seguito ad una conversazione così surreale. Lo Jedi cerca di immaginare quale delle espressioni che si agitano nel cilindro dei suoi ricordi si celi sotto quella maschera...

“Come facevi a sapere che ero su Tatooine… Come hai fatto a trovarmi?”

“La vostra presenza nella Forza risplende come la stella del nord in una notte senza luna”

“Vostra?”

“La tua e… quella del bambino”

“Conosci Anakin?”

Il silenzio di Amira è denso di risposte. Qui-Gon studia a lungo la sagoma della giovane Tusken. Uno scudo impenetrabile avvolge la sua mente. Allo stesso modo in cui le garze celano il suo volto.

“Mi hai spiegato come mi hai trovato ma ancora non mi hai detto il PERCHÉ…”

“Siete in pericolo. Tu, la tua gente, il bambino. Un… un agente del male si aggira nel deserto. Mi sono imbattuta in lui la scorsa notte. Il Lato Oscuro brucia in quell’essere come un fuoco nero. L’ho avvertito chiaramente. Ha mandato delle sonde in perlustrazione. Cerca qualcosa. Qualcuno”

“Noi”

“Chi altri Qui-Gon?”

Sentirle pronunciare il suo nome lo fa trasalire. Sì, ha sempre avuto un talento particolare nel sorprendere gli altri…

“Perché pensi che Anakin sia in pericolo?”

“Si può ignorare la sua presenza? Se arriverà a voi, arriverà anche a lui e… ai suoi poteri. Non sottovalutare le mie percezioni”

Qui-Gon riflette. Lo sguardo distante.

“Non lo farò. Non l’ho mai fatto. Grazie per avermi messo in guardia”

“Non lo faccio per te…”

Le sue parole affondano in vecchie cicatrici come una lama avvelenata.

“Amira, io…”

“No, devo andare. Devo tornare dalla MIA gente”

“Aspetta!”

Quante parole mai dette. Frasi interrotte. Spiegazioni sospese.

“Lascia almeno che ti guardi in viso. Un’ultima volta… Ti prego”

Un’onda di stupore sfugge al rigido controllo mentale della donna. Investe Qui-Gon con una forza tale da sopraffare la sua stessa sorpresa per la richiesta appena avanzata.

Cautamente le si avvicina. Avverte la sua lacerante indecisione. Ne è incoraggiato. A distanza di un respiro si ferma. Rimane immobile, gli occhi infiammati dal riverbero degli astri.

“Amira…”

Sfiora con la punta delle dita la superficie ruvida delle bende.

No!

Una mano guantata si stringe intorno alla sua e la blocca. Una stretta di duracciaio. Per qualche secondo solo il suono spezzato del respiro viola la sacralità del loro silenzio.

Poi, come vinta da una necessità disperata, l’aura di Amira rompe gli argini e dilaga. L’impronta della donna torna a vibrare nella Forza come una fiamma che ha a lungo covato sotto le ceneri del tempo.

Un click accompagna l’apertura del fermo che trattiene la pesante fasciatura sulla nuca. Con una lentezza quasi rituale le mani dello Jedi svelano alla luce spettrale della notte il segreto di quel viso mascherato. La bocca ben disegnata. Gli zigomi volitivi. Gli occhi dai riflessi ambrati. E quei capelli castani in perenne lotta con guizzi pallidi di luce...

Qui-Gon le avvicina tremante la mano al viso. Lo carezza lievemente col dorso delle dita. Traccia col pollice la linea del profilo…

Gli occhi della donna si chiudono. Con feroce ostinazione ignorano la supplica delle lacrime.

Cosa mi salta in mente? Perché sto violando le leggi della mia gente? Perché mostro il viso ad un uomo che NON è il mio compagno? Lo sta facendo di nuovo… Sta cercando di portarmi via quel poco che mi è rimasto: la mia identità…

Con una spinta lo allontana da sè.

“Non mi toccare. Non farlo MAI più. Tu conosci le nostre leggi. Sai che è proibito”

“Perdonami. Non intendevo umiliarti. Per un istante ho avuto l’impressione che…”

“Taci! È tutto inutile. Capisci? Inutile. Non è cambiato niente…”

La barriera mentale torna a sollevarsi. E a dividere.

“Io ti… odio”

Le parole della giovane Tusken proiettano un’ombra densa sul viso di Qui-Gon. Scuotono le fondamenta della sua proverbiale impassibilità.

“Amira, non farlo. Non farti questo. L’odio conduce alla sofferenza”

“No Maestro, è la sofferenza che conduce all’odio”

Con uno scatto, la donna solleva il gaderffii. Lo punta contro lo Jedi. Ma la sua presa è incerta, vacillante. Un gesto difensivo, privo di un qualsiasi intento intimidatorio. Quasi a coprire la sua lenta, straziante ritirata.

Indietreggia, un passo dietro l’altro, senza mai voltare le spalle. In lotta contro la volontà caparbia d’ogni singola cellula del suo corpo. Contro il grido disperato della sua pelle e dei suoi ricordi. L’oscurità l’assorbe gradualmente, confonde la sua sagoma con le presenze elusive della notte. Finché non rimane altro che sabbia, rocce, silenzio. 

 

Un uomo rimane solo su limitare del deserto. Immobile come le pietre che lo circondano. Con un respiro profondo cerca di allentare la morsa del dolore. Poi si lascia scivolare sulle ginocchia e con gli occhi chiusi accoglie docilmente l’abbraccio consolatorio della meditazione.

 

§

 

Un dialogo silenzioso procede sulle ali della brezza notturna. Domande, risposte. Ancora domande. Due anime cercano di comunicare senza mai ascoltarsi. Quante parole mai dette, frasi interrotte, spiegazioni sospese…

 

Che errore, Amira, strapparti alla tua gente, agli ampi spazi fisici e mentali del deserto, alla fiera libertà inscritta nei tuoi geni… Ma era impossibile ignorare la tua presenza. Ci chiamava a sé con la struggente intensità della Forza che insegue la Forza.

 

Che errore, Qui-Gon, tentare di domare l’indomabile, contenere il mio spirito, piegarlo alle regole. E alla disciplina. Che errore strapparmi alle braccia rassicuranti del deserto…

 

Eppure eri l’iniziata più brillante del Tempio. Determinata. Coraggiosa. Percettiva. Una miscela potente d’istinto e controllo. Ti avrei scelta. Ti avrei voluta come mia Padawan se il fallimento con Xanatos non avesse minato la mia riserva di fiducia e di… speranza. E allora tutto sarebbe stato diverso… Forse.

 

Se solo mi avessi scelta come tua Padawan… chissà, le cose sarebbero andate in un altro modo. Forse. O forse no.

Ti ammiravo. Tu lo sapevi. Ammiravo la tua ostinata indipendenza. L’orgogliosa sfida ai dettami del Codice e del Consiglio.

Il tuo rifiuto ha aperto la prima crepa in quel muro di controllo che avevo eretto per difendermi dalle tempeste che mi scuotevano dentro.

 

Master Ashur si era comunque fatto avanti. Ti aveva scelta senza riserve. La sua propensione agli aspetti meditativi della vita Jedi sembrava bilanciare le tue intemperanze, smussare le tue asperità. Ancora oggi mi chiedo perché tutto sia andato a finire così… Dove ci ha condotti la Forza? Cosa ci ha portato?

 

…E alla fine la Forza ha ristabilito l’ordine naturale delle cose. Mi ha resa alla mia gente.

 

Avevi 20 anni. Un curriculum invidiabile. I trials dietro l’angolo. Mandarti in missione su Tatooine fu un errore madornale.

 

Tatooine. L’ultima, fatale missione. Il Consiglio aveva puntato sul mio istinto e sul mio sangue Tusken… La padronanza delle tecniche di dissimulazione era un presupposto basilare per un lavoro d’intelligence in condizioni tanto estreme.

 

Una lunga scia di sangue attraversava la Galassia. Una feroce faida fra Hutt per il controllo del commercio degli schiavi. Alcune informative indicavano in questo pianeta remoto la roccaforte di uno dei clan coinvolti. Il Cancelliere aveva deciso di rivolgersi al Consiglio Jedi per ottenere assistenza in un’operazione segreta di raccolta d’informazioni.

 

Ogni cosa era filata liscia fino a quando quel gruppo di Tusken ci aveva assaliti… Ronzio di spade. Sabbia. Luce abbagliante. Riesco ancora a vedere, come se l’avessi davanti agli occhi, una lama verde… la mia. S’insinua nel corpo di un predone… Riesco ancora a sentire il senso dilaniante di qualcosa che mi si spezza dentro. Irrimediabilmente.

 

Ebbi l’incarico insieme al Maestro Ashur. Il Consiglio ritenne indispensabile la presenza dei nostri Padawan. Una decisione incomprensibile.

Fu un perfetto lavoro di squadra. Una missione segnata dal successo. Fino allo scontro con i Sabbipodi… Amira perché non sei riuscita a perdonarti? Hai ucciso, sì. Hai ucciso per difendere la vita del tuo Maestro. Perché non hai concesso appello alla tua coscienza?

Ancora ricordo i tuoi occhi freddarsi in un’espressione di duro granito. E perdere per sempre la loro calda dolcezza. Ancora ricordo il tuo tremore, lo sguardo fisso sulla mano fratricida. E la tua fuga…

 

La seconda crepa nel mio muro di controllo…

 

Ordinai ad Obi-Wan di riportare il Maestro Ashur, gravemente ferito, alla nave.  E venni a cercarti. Odiavo me stesso per non essere riuscito a prevedere l’attacco, per non essere riuscito a proteggerti, a risparmiarti la scelta lacerante fra due lealtà contrapposte.

 

Non ero più niente. Polverizzata come sabbia. Come sabbia mi persi nel deserto. Ma tu riuscisti a trovarmi. La tua proverbiale compassione. Il tuo senso dell’onore…

 

Ho cercato di trovare scuse, di giustificare la mia frenetica ricerca con nobili e falsi pretesti...

 

La tua compassione ti mise sulle mie tracce. La stessa compassione trasformò un abbraccio pietoso in un amplesso disperato…

 

La Forza vivente mi condusse a te. E… l’amore. Quanto mi è costato ammetterlo… L’amore mi spinse ad oltrepassare ogni limite imposto dal Codice. E a rivelarmi. Strinsi il mio corpo al tuo per mettere a tacere quel presentimento di perdita che assediava la mia mente.

Riesci ancora a vedere, Amira? Riesci a sentire? Il fuoco. Le stelle. Il fresco respiro del deserto. Il mio mantello avvolto attorno ai nostri corpi…

 

..Fino a quando non sopraggiunse l’alba col suo carico di sangue innocente...

 

Vedemmo sorgere i due soli gemelli. La loro luce proiettare l’ombra densa di quel nuovo gruppo di Sabbipodi. Temetti un nuovo attacco. Dovevo difenderti. Dovevo proteggerti…

 

Un pugno di Tusken ci osservava da un’altura sovrastante il nostro accampamento. Immobili. Imperscrutabili. Col pigro levarsi dei due soli si erano mossi contro di noi. Ma non è sangue che cercavano. Cercavano me… È me che volevano.

 

Volevo difenderti… Volevo proteggerti…

 

Uccidesti mia madre. Davanti ai miei occhi.  Una madre piegata da venti anni di solitudine. E da una perdita che nessuna Forza dell’universo avrebbe potuto consolare. Cercava solo di riprendersi quello che le era stato sottratto…

 

Mi avevano accerchiato, separato da te. Non pensai. Non ragionai. Seguii il mio istinto. E sbagliai. Solo quell’addio silenzioso, proiettato nella Forza da una madre morente, mi fece capire cosa avevo fatto... Cosa ti avevo fatto.

 

E con lei mi portasti via quel poco che mi era rimasto: la mia identità…

 

Non sapevo. Non potevo sapere. 

Quel ricordo ha tormentato la mia coscienza per anni. Il tuo sguardo fisso su di me. Privo d’odio. O dolore. Privo di compassione. E il movimento dannatamente lento con il quale allentasti la presa della tua spada per consegnarla all’oblio della sabbia…

La sentenza era già stata emessa, vero Amira? Senza dibattito o possibilità di difesa. Senza processo. Condannasti me. E più di me condannasti te stessa.

 

Ma sono rinata. Rinata tra i profumi dolci degli hubba che maturano nelle oasi. Le sinfonie ventose dei canyon. I volubili giochi di luce creati dall’eterno inseguirsi dei due soli…

Quando un Tusken perde il suo fedele Bantha si autoesilia nel deserto finché gli spiriti delle dune non lo conducono ad una morte onorevole o ad un nuovo compagno col quale far ritorno al proprio clan. Anch’io ho perso ciò che di più caro avevo. Anch’io ho sofferto l’esilio e affrontato la morte. Anch’io ho fatto ritorno. Ed ho scoperto nell’abbraccio del mio popolo una nuova dignità. Poi sei riapparso tu. Con i tuoi sussurri da incantatore. Con il tuo potere di evocare angeli e fantasmi. Incubi e sogni…

 

Una parte di me è morta. Morta nel momento in cui il deserto ti reclamava e ti strappava alla tua vita, alla mia vita. Ed ora, dopo tutti questi anni, torni da me con oscuri avvertimenti ed un dolore mai spento. Per poi fuggire nuovamente, imprevedibile come la direzione del vento in queste lande assetate. Senza nemmeno chiedermi per quale motivo io sia tornato su Tatooine… Perché?

 

So cosa ti ha spinto qui. Forse più di te…

 

§

 

Nella luce implacabile del primo pomeriggio l’astronave nubiana palpita come un miraggio.  Ma i sensi di Amira non si lasciano ingannare dai deliri roventi del deserto. Appostata dietro le cattedrali di roccia osserva. E attende.

Un’imboscata è da poco fallita. Un gruppo di predoni appartenenti al suo clan ha tentato di fermare il guerriero tatuato. L’hanno attratto nella penombra di un canyon, circondato, attaccato. Ma lo straniero non ha concesso nemmeno l’onore del combattimento. Con un impressionante dispiego di potenza e di grazia felina ha scavalcato gli aggressori ed è fuggito, veloce ed effettivo solo come l’odio sa essere. 

Ben altri sono i suoi avversari… E i suoi obiettivi.

Ora non rimane che aspettare. E sperare che il diversivo abbia almeno intralciato la caccia del nero predatore.

Sulla linea tremolante dell’orizzonte si stagliano due figure. Si dirigono di corsa verso l’astronave. La giovane Tusken non ha bisogno degli occhi per discernere l’identità dei fuggitivi. Percepisce l’ansia e la tesa concentrazione di Qui-Gon. Avverte lo sfinimento di Anakin che stenta a tenere il passo del Maestro. La proiezione dei loro stati d’animo è così intensa da spezzarle il respiro.

Coraggio, manca poco…

Un’onda di puro terrore investe i suoi sensi. Ha imparato a riconoscerne il gelido tocco. Fin troppo bene…

La forma insolitamente tondeggiante di uno speeder spunta alle spalle del ‘piccolo incantatore’. Il signore oscuro è alla sua guida. In una frazione di secondo annulla la distanza che lo separa dal bambino. Solo l’istinto e il tempestivo richiamo di Qui-Gon salvano Anakin dall’investimento. Ma la folle corsa non è finita. Il Maestro Jedi è il fulcro su cui fa leva l’aggressività del misterioso guerriero. Una lama rossa emerge dal bagliore della congiura di luce e sabbia. Si abbatte con un ronzio perverso contro il raggio verde dello Jedi. L’odore acre di ozono vola sulle ali del vento. Porta alla giovane Tusken l’eco delle increspature nel campo delle Forza. E dei suoi drammatici strappi.

Prontamente il bambino si rialza e con uno scatto raggiunge la rampa di atterraggio.

Corri, Ani, corri!

Il corpo di Amira si tende, sopraffatto dalla percezione dello scontro titanico in atto. Un antico riflesso affiora dall’inconscio. Con la mano sinistra cerca d’impugnare quel cilindro metallico che per tanti anni ha scortato la sua cintura. La vanità del gesto acuisce il suo senso d’impotenza. E la sua rabbia. Emerge dagli abissi della paura. Invade la sua mente come un fiume in piena. Pulsa assieme all’implacabile pressione del sangue sulle sue vene temporali: il Lato Oscuro. Denso. Vischioso. Riesce quasi a toccarlo.

Più rapido, più seducente…

Rapidità. Quello di cui ha bisogno adesso.

Questa volta non posso stare a guardare mentre la mia vita va in pezzi… Devo agire. Devo salvarli.

In quel preciso momento una mano possente le afferra una spalla. Con l’istinto del predatore, la donna è già pronta alla zampata. Ma due filtri ottici rosso fuoco gelano il suo momento e i suoi propositi. Sharad Hett. Concentrata sul duello, non ha avvertito la presenza del condottiero Tusken.

Il Sabbipode dai trascorsi Jedi, la fissa per un istante, poi scuote lentamente la testa, in cenno di diniego.

“Non interferire. Osserva”

Amira torna a concentrarsi sulla scena dello scontro. Con la coda dell’occhio intravede l’astronave sollevarsi da terra, la rampa ancora abbassata.

Cosa diavolo… Sì! Questa è opera tua Obi-Wan…

Il velivolo si porta immediatamente al di sopra dei due contendenti. La tempesta di polvere scatenata dai propulsori riduce la visibilità. Approfittando del momentaneo vantaggio Qui-Gon compie un salto poderoso, aggancia la rampa e si rifugia nel ventre della nave già in linea col suo vettore di fuga.

È fatta. È fatta…

La mano di Hett torna a stringersi rassicurante sulla spalla della giovane Tusken. Attraverso la Forza, le giunge un senso di pace e di accettazione. La carezza mentale di un compagno dal percorso di vita straordinariamente simile al suo.

Le gambe di Amira si piegano sotto il peso della stanchezza e della tensione accumulate negli ultimi due giorni. Le unghie affondano nella sabbia mentre mille immagini si accavallano nella sua mente. Ricordi remoti e recenti… Un viso indurito dall’esperienza e dalle responsabilità sfuma nella morbida innocenza dell’espressione di un bambino. I riflessi di un falò danzano con le ombre del deserto. Mani grandi e forti s’intrecciano con le sue. Mentre le sue si abbandonano alla meraviglia del tocco di minuscole dita. Occhi sfolgoranti di blu alternano sguardi divertiti e concentrati. Penetranti e malinconici... Quegli occhi. Così uguali. Così diversi.

La giovane Tusken torna a sollevare lo sguardo, cercando nel cielo di Tatooine l’ultimo riflesso metallico del Nubian. Attraverso il suo respiratore riecheggia una cantilena, a tratti spezzata dal pianto. “Ila-l-likâ, ila-l-likâ” ripete all’infinito… ”addio, addio”.

Addio al passato e al futuro. All’uomo che ha fatto spiccare il volo al suo cuore. E al bambino a cui quello stesso cuore ha permesso di spiccare il volo. Suo… figlio.

 

Epilogo

 

Le stelle di Tatooine non sono mai sembrate tanto indifferenti al dolore di Shmi Skywalker. Tanto responsabili della sua perdita. Si sono portate via Ani. Ed il loro trionfo di luce sembra prendersi gioco della sagoma ricurva della donna, seduta stancamente sulla balaustra in terra essiccata nella veranda della sua abitazione. Sente improvvisamente il peso degli anni piegarle le spalle. Fiaccarle la resistenza.

Sarebbe così facile lasciarsi andare…. 

Un lieve fruscio l’avverte della presenza di un intruso. Nascosto nelle pesanti falde di un mantello, la scruta dall’angolo più in ombra della veranda. Immobile come l’aria della sera.

“Te la caverai, Shmi?”

Gli occhi castani della donna si stringono a fessura cercando d’identificare il possessore di quella voce così insolita. Come camuffata. O filtrata…

“Amira?”

Un lieve movimento della testa dello sconosciuto svela il profilo di un viso completamente avvolto in spesse garze. È l’unica risposta di cui ha bisogno Shmi.

“Sono contenta di rivederti”

Le parole della schiava s’infrangono ancora una volta in un muro di silenzio. Per un istante osserva la figura stoica e dignitosa della donna Tusken. La schiena dritta come un fuso, le braccia incrociate all’interno delle larghe maniche della cappa.

“Come hai fatto Amira? Come ci sei riuscita?”

“Non è la prima volta che mi avvicino alla vostra casa…”

“No. Come hai fatto a… rinunciare ad Anakin”

Il senso della domanda di Shmi penetra come una vibrolama attraverso le difese mentali di Amira.

“Esattamente come hai fatto tu, Shmi. Imparando a lasciar andare, consapevole di cosa fosse meglio per lui”

La donna più anziana scuote la testa. Un sorriso amaro le affiora sulle labbra.

“Una vita da schiavo? Era questo il meglio per lui?”

“Non eri una schiava quando te l’affidai. E anche dopo, cosa avrei dovuto fare? Sottrarlo all’amore dell’unica vera madre che lui avesse mai avuto? Le vie della Forza sono imperscrutabili… Io stessa, dopo tutti questi anni, ancora faccio fatica ad accettarlo”

Shmi china il capo. Si fissa sul pavimento polveroso della veranda. Dopo le lacrime anche le parole si sono prosciugate.

“Shmi, tu sei stata la migliore madre che Anakin potesse avere. Cosa gli avrei trasmesso io? Cosa gli avrei insegnato? Il rancore? La disperazione? L’odio per chi si ama. L’amore per chi si odia. La brutalità della vita del deserto... No. Tu hai piantato il seme della generosità nel suo cuore. E della compassione. Sarà dura per loro farsi strada attraverso la sabbia ardente. Ma prima o poi germoglieranno. Io lo sento…”

Gli occhi della donna guardano con rinnovata ammirazione la giovane Tusken.

Consola me, dopo aver perso per la seconda volta il suo bambino

“Forse c’è una cosa che gli avresti potuto insegnare. Qualcosa di cui io non sono stata in grado nemmeno di parlargli: la libertà”

Amira non risponde. Ringrazia silenziosamente gli spiriti delle dune per aver celato sotto le garze le sue espressioni. E le sue emozioni. Distoglie lo sguardo da Shmi e dal proprio senso d’inadeguatezza. Dai mille dubbi che tormentano ogni scelta fatta. Ogni possibilità negata. Poi si abbandona ai percorsi tortuosi del suo pensiero.

“Grazie per aver mantenuto il segreto e protetto mio… il bambino”

Shmi chiude gli occhi. Il suo cenno di assenso è appena percettibile. Sospira. Prende coraggio.

“Qui-Gon Jinn… è lui il padre di Ani, non è vero? Per questo gli hai permesso di portarlo via…”

“Solo metà di Anakin appartiene al deserto e alle sue asperità. L’altra metà appartiene alle stelle e al… destino”.

Non è una risposta. O forse lo è. Ma il tempo delle parole è finito. La ruota della vita ha ripreso il suo lento ciclo. E il deserto reclama Amira.

Shmi la guarda allontanarsi. Farsi ombra nell’ombra. Mai piegata dal fardello di un destino che come la Forza sembra trasmettersi attraverso il sangue. Madri che perdono i figli. Figli che perdono le madri…

E si chiede quando tutto questo avrà fine…

 

 

___________

Note dell'autrice:

Ogni luogo, personaggio, situazione che presenti l’inconfondibile marchio di fabbrica SW appartiene al ‘venerabile Flanellato’. No rights infringment is intended. Il personaggio principale della storia, invece, appartiene solo a se stesso e al… deserto.

 

Che Qui-Gon fosse già stato su Tatooine è espressamente raccontato nella novelization di TPM by Terry Brooks a pag.108 (hardcover, versione originale). Quanto all’attacco Tusken ai danni di Darth Maul, è lui stesso a farne un resoconto dettagliato nel suo Episode1 Journal (pag. 60-62, versione originale).

 

Un grazie particolare va alle mie beta readers (wow, abbiamo raddoppiato il parco lettori!) Eleia e Lys73.

 

Dedico questa storia ai ‘Sandpeople’ del Sinai, che in una notte magica di febbraio, sotto quel tetto di stelle che solo il deserto può regalare, mi hanno fatto capire il vero senso della parola ‘libertà’.